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ARGOMENTO: Scriviamo una cosuccia insieme?

Scriviamo una cosuccia insieme? 03/03/2014 11:37 #48

  • Monica
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Siamo arrivati alla quarta parte del racconto: buona lettura! Ci perdonerete salti verbali, di tono e di registro, è solo una bozza... si aggiusterà alla fine ;)

Roberto

Lo spiego per quelli che non hanno mai visto la stazione della metropolitana di Rebibbia, a Roma. L’entrata è una grande bocca semicircolare che affaccia su una piazzetta delimitata da alti muri di mattoncini grigi. La fermata si trova accanto alla Tiburtina da un lato, e al fiume Aniene dall’altro. D’inverno la sera su quella piazza si forma una specie di nebbiolina, acre, densa, composta di tutti gli scarichi delle fabbriche che il corso d’acqua raccoglie nel suo percorso verso le fogne. La maggior parte delle volte, dei cinque lampioni piazzati nel perimetro, ne funziona solo uno; l’ambiente è spettrale, se ci si dimentica dei claxon e dei rombi dei motorini che scorrazzano a meno di centro metri.
Proprio lì, in mezzo ai miasmi, un uomo basso, grasso, pelato a chiazze, cammina avanti e indietro, con fare nervoso. Indossa un camice da dottore, ma non si capisce bene perché quel suo agitarsi lo fa continuamente uscire dal campo illuminato dall’unica fonte di luce in quella piazza. Da dentro la stazione, il barrire di una bestia gigantesca rimbomba nei cunicoli sotterranei. Dall’uscita sbuca un drappello di persone. Il ciccione si blocca, scruta tra la gente, grugnisce e torna a fare passetti a vuoto. Dopo poco, solitario, esce trafelato un ultimo passeggero. E’ un giovane di colore, ha il fiatone, e trasporta un pesante fardello con sé. Si vede solo un attimo nella scena, perché appena fuori sparisce nel buio, e possiamo capire i suoi spostamenti solo concentrandoci sui suoi occhi bianchi, splendenti anche nelle tenebre. Lo vediamo ricomparire per intero solo quando si porta sotto il lampione. Allora scarica il suo bagaglio, e ansimando chiede scusa al grassone. Quello lo osserva serio.
“Che cazzo hai fatto Kal? Qui andiamo male Kal, lo sai vero?”
Il giovane di colore, scuote la testa, fa un grande respiro per recuperare l’aria spesa nel correre.
“Mi devi scusare, ma mi è successa una cosa incredibile. Cioè non so neppure se mi, anzi ci, è capitata sul serio…”.
Il pelato si gira, dandogli le spalle. “Ma come, io trascuro pure il lavoro per essere puntuale. E tu mi fai aspettare venti minuti? Cose da pazzi…”
Il ragazzo cerca di fargli capire: “La metropolitana…”
L’altro fa qualche passo avanti, si allontana nell’oscurità. “Non me ne frega un cazzo, Kal. Stai zitto. Hai portato almeno quello che dovevi?”.
Kal si china sul fagotto, lo apre e infila le mani dentro scuotendole. Produce un rumore metallico che rimbomba tra i muri di mattoncini.
“Bene”, sentenzia il ciccione.
Poi fa sparire una mano dentro il camice e tira fuori una pistola. Stende il braccio, che entra nell’inquadratura del fascio di luce, e la canna della pistola arriva a meno di tre centimetri dal naso del ragazzo.
Da dietro irrompono dei passi. Qualcuno si sta avvicinando lentamente. Il ciccione riporta la mano al suo fianco, senza smettere di impugnare l’arma, e si gira animale a guardare chi arriva. Kal osserva prima la pistola, poi l’ombra che si distingue tra la nebbiolina acida. C’è un uomo, pochi metri più giù, tiene qualcosa in mano che quando arriva vicino al lampione distinguiamo essere un uccello. Lo stringe a doppia presa, tenendolo leggermente proteso in avanti. La bestia è immobile, non si comprende se è un placido vivo o un morto fervente. Lo sconosciuto si ferma a pochi passi dal ciccione che lo guarda come un cane da caccia osserva una lepre.
“Sapete?”, dice l’ospite, “Questa mattina una persona si è buttata sotto un treno. Il mio treno. Io c’ero. Alle sette e tredici in punto.”
Silenzio.
“Allora ho pensato che oggi non mi andava di andare a lavoro. Ho camminato un po’ per le strade, senza meta. Avevo uno stato d’animo strano. Non so se avete presente i barattoli di latta. Ecco. Ad un certo punto l’ho visto”. E con il naso indica l’uccello, fermo che pare imbalsamato. “Voleva attraversare la strada. Me lo ha fatto capire: mi guardava e indicava l’altro marciapiede. Così l’ho preso, e gli ho dato un passaggio. Ero soddisfatto, avevo svolto un bel lavoro, ma quando vado a rimettere l’uccello a terra, quello non si muove. Era praticamente stecchito, come ora. Vedete?”
Mostra l’uccello ai due agitandolo in aria, inutilmente, perché non muove nemmeno la testa. Sembra di plastica.
“Voi pensate sia io? A fare queste cose intendo”
Il ciccione lo osserva con la sua solita faccia da toro castrato, Kal, invece, scuote la testa leggermente. A quel lieve movimento la pistola scatta minacciosa come un serpente a sonagli. I tre rimangono zitti. Dentro la stazione della metropolitana si spengono le ultime luci, ronzando calano le serrande rinchiudendo per la notte la bestia gigantesca che la abita. Il traffico è diminuito, e c’è un’insolita aria di calma urbana.


Federica

Kal apre il suo zaino con gesti calibrati puntando sempre gli occhi sulla canna della pistola. ”Hei amico, calmati, ecco qui, quello che cercavi. Ho trovato tutto.”
Kal comincia a sfilare uno ad uno gli oggetti di valore rubati due ore prima: un trofeo di calcio in oro massiccio, due collane di diamanti, un tablet, un cellulare, e le chiavi di un’auto. Depone tutto sul marciapiede. Il ciccione abbassa la pistola e si china per guardare la refurtiva.
“Bene, bene, ottimo lavoro Kal. E le chiavi?”
“ Quelle sono di una Mercedes parcheggiata in Via Manzoni. Quell’auto vale un bel po’ di soldi. E ora sgancia la grana, bello”.
Gli occhi di Kal lanciavano lame affilate. Tirò fuori dalla tasca posteriore dei Jeans un coltello serramanico e lo puntò contro il ciccione.
“Hei, hei, calma, calma, amico, ti saldo subito.”
Il ciccione sapeva quanto Kal fosse bravo con il coltello, l’avrebbe fatto secco prima ancora di premere il grilletto. Aprì il portafoglio e gli consegnò più di quello pattuito. Mentre Kal contava i soldi, il ciccione mise tutta la refurtiva nello zaino e se lo caricò in spalla. L’uomo con l’uccello guardava in silenzio, non era né sorpreso, né impaurito, era calmo e composto.
Kal lo guardò: “ Hei, tu, stupido pazzo vattene via di qui. Acqua in bocca, se no, te ed il tuo uccello finite in pasto ai pesci”.
Kal sghignazzava ed il ciccione lo seguiva a ruota. Non c’era niente da ridere. L’uomo alzò l’animale imbalsamato verso il cielo e disse:
“Ci finirete voi a marcire in fondo al mare, razza di imbecilli! E’ arrivata la vostra ora! L’ora di tutti voi esseri immondi, vermi inutili!”
Mentre gridava queste parole, l’uccello aprì le sue splendide ali colorate, una Fenice in carne ed ossa spiccò il volo dalle mani di quell’uomo strano e senza nome. Andò a planare davanti all’entrata della metropolitana, gonfiò il petto, allargò le ali ed un grido stridulo svegliò la notte silenziosa. Kal ed il ciccione si fermarono di colpo, in lontananza
rumori di passi rimbombano lungo il tunnel, tanti passi, piccoli passi, veloci, velocissimi passi, si avvicinano, sempre più, sempre più. Kal contorce le labbra, nessun suono esce dalla gola secca, il ciccione impugna la pistola con forza, trema e le ginocchia sono di ricotta, Una strana forza magnetica li teneva bloccati lì, in quel momento, a quell'ora precisa, di quel giorno: 20/05/2050. L’anno della rivincita. La terra si riprendeva ciò che era suo, ciò che l’uomo le aveva rubato e distrutto. Assetata d’acqua, privata di ogni energia, spogliata dei suoi magnifici boschi, attanagliata dalla morsa delle macchine, invasa dai rifiuti tossici, la terra piangeva lacrime di distruzione. E solo dopo la morte ci può essere una nascita. La nascita di una nuova era: Geanova.
I passi metallici si avvicinano, tanti bambini vestiti di tute grigie con indosso scarpe metalliche facevano tintinnare le loro catene, un centinaio di fanciulli avanzava nella notte buia, sguardi fissi, occhi lucidi, mano nella mano, camminavano con passo militare, spedito, perfetto. Erano sbucati dal nulla, avevano seguito il richiamo del loro Capo: la Fenice, colei che avrebbe riportato la natura al suo posto e lo avrebbe fatto con l’aiuto dei bambini, le creature pure ed incontaminate, prive di cattiveria e crudeltà. Nuove donne e nuovi uomini sarebbero nati. Passarono davanti ai tre senza guardali, non li avevano visti, dovevano procedere, avanzare, raggiungere l'obbiettivo. Questi erano gli ordini, queste le condizioni per la loro sopravvivenza e la riuscita del progetto Geanova. I due malcapitati si guardavano in faccia sbalorditi, accantonarono per un momento le loro vite e Kal aprì bocca per primo:
“ Cosa sta succedendo? Mai visto una cosa del genere! Nessuno sembra accorgersi di tutto ciò. Soltanto noi. Dobbiamo seguirli, dobbiamo vedere dove vanno e cosa fanno.”
Il ciccione prese in mano la pistola e annuì in silenzio. L’uomo della Fenice, si parò davanti, incrociò le braccia e sentenziò:
“ Voi non andrete da nessuna parte. Rimanete qui. Attendo gli ordini della Fenice, chissà che ne sarà di voi ah, ah, ah”.
Il ghigno sulla faccia esprimeva sarcasmo e potere. Il ciccione puntò la pistola, premette il grilletto, s’inceppò. Premette di nuovo, nulla. Kal, mentre i due si fronteggiavano, cercava di allontanarsi piano, piano, a piccoli passi, li guardava e si allontanava, non si era accorto del marciapiede, inciampò e cadde. L’uomo della Fenice si voltò di scatto, il ciccione approfittò e lo colpì sulla testa con la pistola, l’altro gli prese il bavero del camice e lo sollevò da terra senza batter ciglio. Continuava a guardarlo fisso negli occhi e non diceva nulla. I tre minuti più lunghi della sua vita non passavano mai. Si sentiva in bilico sul burrone della sua esistenza e le apparse immediatamente vuota e priva di significato. Faceva il macellaio e trafficava in oggetti rubati, non si era sposato e continuava l’attività del padre, così, per inerzia, per comodità. Non gli piaceva scuoiare manzi e maiali e soprattutto odiava la sua clientela. Li serviva con disprezzo e superbia. Si credeva migliore di loro ma dipendeva dai loro soldi. Cercava di far soldi per andarsene via dall’Italia.



Monica

I tre minuti più lunghi della sua vita. Appeso al bavero, quasi a mezz’aria, gli occhi puntati negli occhi, come se quella forza magnetica lo incollasse al pugno che lo sorreggeva. Immagini confuse passavano nella sua testa: una lama di coltello luccicava in un bagliore scomposto, il coltellaccio da macellaio, il serramanico di Kal, il maestoso battito di ali dell’uccello. Tre lunghi minuti.
“Wejeh Kara! Puzzi di sangue e morte, non vali un cazzo, ma di merde come te non mi fido. Per ora vieni con me…”
Lo sconosciuto mollò la presa e il ciccione cadde a terra, come tramortito, con la testa di rimbalzo sul selciato.
In lontananza, il fioco rumore delle catene si perdeva nel buio fitto, immobile, intenso. Di Kal, nessuna traccia.

“… lunghe lingue di fuoco avvolgono il suo corpo, tra il crepitio dei ramoscelli che si spezzano, tra l’aroma delle spezie che intride l’aria: mirto, sandalo, mirra… una pira, come un nido da cui risorgere, da cui levarsi nuovamente in volo verso i limpidi cieli del mondo, verso l’albero sacro di Heliopolis, la città del sole.” Il fuoco riscaldava la fredda notte dell’altopiano, il bambino fissava rapito il crepitare delle fiamme, con la voce del vecchio Akil che continuava il racconto a lui così caro. “Ricorda, ogni 500 anni rinasce l’uccello di fuoco, le piume ritte in capo, l’una azzurra, l’altra rosa…”
SBAM
Kal si svegliò di soprassalto al rumore dell’uscio sbattuto violentemente. Rivoli di sudore gli colavano dalla fronte, al buio accese la luce, si seddette sul letto ancora frastornato, e bevve un goccio d’acqua dal bicchiere posato sul comodino; nell’altra stanza, le voci concitate di Abasi e Bakila rompevano il silenzio. Ancora non riusciva a capire, a mettere a fuoco il sottile confine tra sogno e realtà, tra i ricordi africani e quanto di incredibile era successo nelle ore precedenti. Apparteneva tutto al sogno? L’uccello dalle piume di fuoco, la fila di spettrali bambini, e poi quell’uomo, quell’uomo finito sotto al treno… Socchiuse gli occhi e dalla sua bocca uscì un lungo sospiro, simile a un gemito. Una strana inquietudine lo pervadeva, un leggero tremore, come di febbrili brividi, scorreva nelle sue lunghe gambe. Prese il cappotto e si incamminò nella fredda mattina.
In men che non si dica riemerse nella bocca semicircolare. Il buio della notte aveva lasciato spazio all’algida luce del giorno, ma una calma surreale aleggiava nell’aria, oltre l’alba di una pigra domenica mattina. La nebbia della notte aveva lasciato spazio a una bianca foschia; spenti e ovattati, i rumori metropolitani si scomponevano nel sottofondo. Kal si avviò verso il fiume. Camminò e camminò, per ore, come sospinto da una forza ignota. Il gelo aveva steso su ogni cosa un sottile strato di brina, sui rami spogli, sul fango, sulle foglie che ricoprivano la terra. Il fiume scorreva lento, senza mormorio. Fuori città, la vegetazione si era fatta fitta, un inquieto mondo di piante, di acqua, di silenzio. Lungo il fiume, chiazze di schiuma maleodorante affioravano a tratti; talvolta, lungo l’argine, emergeva qualche bottiglie vuota, qualche pezzo di lurida plastica.
L’anfratto si nascondeva nel fitto della boscaglia, stretto e melmoso. Le scarpe di Kal affondavano nel fango, il camminare si faceva incerto e faticoso. Cosa l’avesse spinto fino a lì, certo, non sapeva. Al limitare dell’avvallamento si apriva l’accesso a quella che sembrava una grotta, un antro oscuro. Alto sul faggio, che ne delimitava l’entrata, immobile e silenzioso guardiano, l’uccello di fuoco. Un odore pungente, di legni aromatici bruciati, si spandeva nell’aria.

Ricorda, ogni 500 anni… un nido da cui risorgere, da cui levarsi nuovamente in volo verso i limpidi cieli del mondo…

Kal entrò avvinto, l’inquietudine che lo aveva pervaso fin dalla sera precedente, lentamente, lasciava spazio a una sorta di euforia, un’ebrezza leggera.
In cerchio, nelle loro divise grigie e logore, un gruppo di bambini sedeva raccolto intorno a un grande falò, lo sguardo fisso sulle lingue di fuoco.
“Sabah al-khir Kal, ti aspettavo.” A pronunciare quelle parole, l’Uomo della Fenice.
L’odore si era fatto più intenso, saliva penetrante nelle narici di Kal, fino ad arrivare al cervello, la testa prese a girare. Cadde svenuto.

Cosa aveva lasciato papà? Un’istantanea nell’album di famiglia e solo un altro mattone. Abbattere il muro, abbattere il muro. Ci sarebbero arrivati ad abbattere il muro, mancavano solo 48 ore per riappropriasi della propria coscienza, per ridare al mondo ciò che l’uomo aveva rubato e distrutto. Il sole doveva morire e rinascere, così come aveva fatto l’uccello di fuoco.

Lucia Rambaldi, seduta al tavolo della modesta cucina, sotto la fioca luce che pendeva dal soffitto, fissava smarrita la tazza di caffelatte fumante davante a lei. Aveva bisogno di qualcosa che la rifocillasse, che la mantenesse vigile, ma non riusciva a mandar giù neanche un sorso. Gli occhi gonfi dalle troppe lacrime versate, la stanchezza di una notte da incubo, passata all’obitorio per il riconoscimento del cadavere e il disbrigo delle pratiche burocratiche. Che parole avrebbe trovato per dire a due figli che il padre era tragicamente morto sotto le rotaie del treno metropolitano? Forse, avrebbe tergiversato, almeno per il momento. Dalle deposizioni dei primi testimoni si parlava di un possibile suicidio. Suicidio? Come suicidio? Con la testa ovattata dal pianto e dal dolore non riusciva a trovare spiegazione alcuna. Forse, un incidente, ma come? O forse qualcuno lo aveva spinto? Ma chi? Un malato di mente in un attimo di pura follia…



Paolino

La coda dell’occhio intravede qualcosa alla finestra: un bagliore iridescente.
Ci mancavano anche le allucinazioni! È il caso di andare a riposare – pensa Lucia.
Ma non fa in tempo ad alzarsi, che la cucina è inondata di colori.
È un fenomeno incomprensibile, ma Lucia non ha affatto paura. Tutt’altro:
Ecco com’era la fabbrica degli arcobaleni che sognavo da piccola! – esclama la donna dentro se stessa, e sorride.
Il primo sorriso dopo due giorni. E così come è arrivato, lo sfolgorio se ne va. Lucia corre alla finestra appena in tempo: eccolo salire e in un attimo scomparire dentro la prima luce del giorno, come fosse il video visto all’indietro di una stella cadente.
Lucia sorride ancora. Nonostante il lutto, questo evento la riempie di gioia. La gioia, pensa, è un sentimento assurdo in questa situazione. Ma pensa anche: chi la obbliga a essere triste? Le convenzioni sociali? Perché il mondo circostante riesce a entrare così in profondità in lei e costringerla a risposte predefinite?
Squilla il telefono. Lucia sobbalza. A quest’ora gli uffici sono chiusi, i figli dormono, così come i conoscenti. Due, tre, quattro squilli e Lucia decide di rispondere, anche se non vorrebbe. Una voce sconosciuta.
“Hai visto?”
“Che cosa?” risponde spaventata.
“Come, che cosa? La luce.”
“Certo che l’ho vista. Lei ne sa qualcosa?”
“Hai visto in che direzione è scomparsa?”
“A est.”
“Bene. Seguila.”
“E come faccio?” Ma la voce ha riattaccato.
Come si fa a seguire una cosa del genere? – pensa smarrita. E la risposta le viene con la facilità che si ha da bambini, quando il pensiero sembra fuoriuscire dalle cose stesse, materializzato prima ancora che pensato. Con l’autobus!
E Lucia scende subito in strada, e corre alla fermata del [ROMANI! DITE VOI COSA DEVE PRENDERE PER ANDARE VERSO EST...]. Dopo un minuto, forse meno, ecco l’autobus. “Mi scusi, me lo fa lei il biglietto?” chiede all’autista.
“Sì, però con la maggiorazione.”
Lucia compra il biglietto, si siede e si immerge nei pensieri. Che senso ha tutto questo? Il bus corre e la sballotta sul sedile di legno. Il sole sta per spuntare. Il bus abbandona le case e nella strada deserta corre ancora di più. È terribilmente rumoroso, Lucia non lo sopporta più, si avvicina all’autista e gli chiede di andare più piano. Nessuna risposta. Alza la voce. Ancora niente. Urla, ma l’autista continua a guardare avanti, rigido. Lucia è inquieta, c’è qualcosa che non la convince. Perché l’autobus è vuoto e non ha fatto neppure una fermata? L’unico passeggero è lei. E perché la strada si sta allargando, e la velocità sta aumentando a dismisura? A un tratto il rumore cala e gli scossoni diventano un ondeggiare lieve, ed ecco: Lucia è paralizzata dentro, non sa se stupirsi o gridare di terrore. Il bus sta volando.
Un uomo si siede accanto a Lucia, che si scuote.
“Ma cosa sta succedendo?” gli chiede.
“Quello che deve succedere” risponde l’uomo. Lucia riconosce la voce: è quella che le ha fatto la strana telefonata.
“Dove stiamo andando? Io sono scesa subito, ho preso questo autobus, che però non è un autobus, non ci capisco più niente…”
“Tranquilla, va tutto come deve andare. Hai fatto quello che dovevi fare.”
Uno scossone. Lucia guarda fuori: l’autobus è tornato sulla terra ed è, così le pare, molto fuori Roma. La direzione, pensa, era quella di Tivoli, ma di quel paesaggio non riconosce niente, assolutamente niente.
“Vedi?” le dice l’uomo, “è tutto normale.”
Lucia sorride.
“Cos’hai da ridere? Questa è una cosa seria” dice l’uomo, accigliato.
“Era un pensiero che ho avuto stamattina. Quando ho visto la luce mi sono ricordata di una fissazione di quando ero piccola. Credevo che gli arcobaleni venissero costruiti da una fabbrica dietro la collina e che la ciminiera lo sputasse fuori via via. E quando sono uscita di casa ho anche pensato: ora vado a scoprire dove sta e come funziona.”
Ora anche l’uomo sorride.
“Bene. Sapevo che tu eri la persona giusta. Vieni, scendiamo.”
Il bus si ferma e le porte si aprono con un lieve soffio. Lucia e l’uomo si trovano in un piazzale. La palina della fermata riporta la dicitura “Capolinea”. La strada è trafficata come in un normale giorno feriale.
“Di là” dice l’uomo, e imbocca una stradina, che ben presto diventa un sentiero.
Lucia lo segue tranquilla. Entrano in un bosco, costeggiano una grande parete rocciosa e di colpo si ritrovano all’ingresso di un antro, sotto un grande albero. Lucia guarda in su ed esclama:
“L’arcobaleno! Ecco dove nasce!”
Ultima modifica: 23/04/2014 20:49 da Monica.
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Scriviamo una cosuccia insieme? 03/03/2014 11:28 #47

  • Monica
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Eccola 4 parte del racconto: buona lettura!

Roberto

Lo spiego per quelli che non hanno mai visto la stazione della metropolitana di Rebibbia, a Roma. L’entrata è una grande bocca semicircolare che affaccia su una piazzetta delimitata da alti muri di mattoncini grigi. La fermata si trova accanto alla Tiburtina da un lato, e al fiume Aniene dall’altro. D’inverno la sera su quella piazza si forma una specie di nebbiolina, acre, densa, composta di tutti gli scarichi delle fabbriche che il corso d’acqua raccoglie nel suo percorso verso le fogne. La maggior parte delle volte, dei cinque lampioni piazzati nel perimetro, ne funziona solo uno; l’ambiente è spettrale, se ci si dimentica dei claxon e dei rombi dei motorini che scorrazzano a meno di centro metri.
Proprio lì, in mezzo ai miasmi, un uomo basso, grasso, pelato a chiazze, cammina avanti e indietro, con fare nervoso. Indossa un camice da dottore, ma non si capisce bene perché quel suo agitarsi lo fa continuamente uscire dal campo illuminato dall’unica fonte di luce in quella piazza. Da dentro la stazione, il barrire di una bestia gigantesca rimbomba nei cunicoli sotterranei. Dall’uscita sbuca un drappello di persone. Il ciccione si blocca, scruta tra la gente, grugnisce e torna a fare passetti a vuoto. Dopo poco, solitario, esce trafelato un ultimo passeggero. E’ un giovane di colore, ha il fiatone, e trasporta un pesante fardello con sé. Si vede solo un attimo nella scena, perché appena fuori sparisce nel buio, e possiamo capire i suoi spostamenti solo concentrandoci sui suoi occhi bianchi, splendenti anche nelle tenebre. Lo vediamo ricomparire per intero solo quando si porta sotto il lampione. Allora scarica il suo bagaglio, e ansimando chiede scusa al grassone. Quello lo osserva serio.
“Che cazzo hai fatto Kal? Qui andiamo male Kal, lo sai vero?”
Il giovane di colore, scuote la testa, fa un grande respiro per recuperare l’aria spesa nel correre.
“Mi devi scusare, ma mi è successa una cosa incredibile. Cioè non so neppure se mi, anzi ci, è capitata sul serio…”.
Il pelato si gira, dandogli le spalle. “Ma come, io trascuro pure il lavoro per essere puntuale. E tu mi fai aspettare venti minuti? Cose da pazzi…”
Il ragazzo cerca di fargli capire: “La metropolitana…”
L’altro fa qualche passo avanti, si allontana nell’oscurità. “Non me ne frega un cazzo, Kal. Stai zitto. Hai portato almeno quello che dovevi?”.
Kal si china sul fagotto, lo apre e infila le mani dentro scuotendole. Produce un rumore metallico che rimbomba tra i muri di mattoncini.
“Bene”, sentenzia il ciccione.
Poi fa sparire una mano dentro il camice e tira fuori una pistola. Stende il braccio, che entra nell’inquadratura del fascio di luce, e la canna della pistola arriva a meno di tre centimetri dal naso del ragazzo.
Da dietro irrompono dei passi. Qualcuno si sta avvicinando lentamente. Il ciccione riporta la mano al suo fianco, senza smettere di impugnare l’arma, e si gira animale a guardare chi arriva. Kal osserva prima la pistola, poi l’ombra che si distingue tra la nebbiolina acida. C’è un uomo, pochi metri più giù, tiene qualcosa in mano che quando arriva vicino al lampione distinguiamo essere un uccello. Lo stringe a doppia presa, tenendolo leggermente proteso in avanti. La bestia è immobile, non si comprende se è un placido vivo o un morto fervente. Lo sconosciuto si ferma a pochi passi dal ciccione che lo guarda come un cane da caccia osserva una lepre.
“Sapete?”, dice l’ospite, “Questa mattina una persona si è buttata sotto un treno. Il mio treno. Io c’ero. Alle sette e tredici in punto.”
Silenzio.
“Allora ho pensato che oggi non mi andava di andare a lavoro. Ho camminato un po’ per le strade, senza meta. Avevo uno stato d’animo strano. Non so se avete presente i barattoli di latta. Ecco. Ad un certo punto l’ho visto”. E con il naso indica l’uccello, fermo che pare imbalsamato. “Voleva attraversare la strada. Me lo ha fatto capire: mi guardava e indicava l’altro marciapiede. Così l’ho preso, e gli ho dato un passaggio. Ero soddisfatto, avevo svolto un bel lavoro, ma quando vado a rimettere l’uccello a terra, quello non si muove. Era praticamente stecchito, come ora. Vedete?”
Mostra l’uccello ai due agitandolo in aria, inutilmente, perché non muove nemmeno la testa. Sembra di plastica.
“Voi pensate sia io? A fare queste cose intendo”
Il ciccione lo osserva con la sua solita faccia da toro castrato, Kal, invece, scuote la testa leggermente. A quel lieve movimento la pistola scatta minacciosa come un serpente a sonagli. I tre rimangono zitti. Dentro la stazione della metropolitana si spengono le ultime luci, ronzando calano le serrande rinchiudendo per la notte la bestia gigantesca che la abita. Il traffico è diminuito, e c’è un’insolita aria di calma urbana.



Federica

Kal apre il suo zaino con gesti calibrati puntando sempre gli occhi sulla canna della pistola. ”Hei amico, calmati, ecco qui, quello che cercavi. Ho trovato tutto.”
Kal comincia a sfilare uno ad uno gli oggetti di valore rubati due ore prima: un trofeo di calcio in oro massiccio, due collane di diamanti, un tablet, un cellulare, e le chiavi di un’auto. Depone tutto sul marciapiede. Il ciccione abbassa la pistola e si china per guardare la refurtiva.
“Bene, bene, ottimo lavoro Kal. E le chiavi?”
“ Quelle sono di una Mercedes parcheggiata in Via Manzoni. Quell’auto vale un bel po’ di soldi. E ora sgancia la grana, bello”.
Gli occhi di Kal lanciavano lame affilate. Tirò fuori dalla tasca posteriore dei Jeans un coltello serramanico e lo puntò contro il ciccione.
“Hei, hei, calma, calma, amico, ti saldo subito.”
Il ciccione sapeva quanto Kal fosse bravo con il coltello, l’avrebbe fatto secco prima ancora di premere il grilletto. Aprì il portafoglio e gli consegnò più di quello pattuito. Mentre Kal contava i soldi, il ciccione mise tutta la refurtiva nello zaino e se lo caricò in spalla. L’uomo con l’uccello guardava in silenzio, non era né sorpreso, né impaurito, era calmo e composto.
Kal lo guardò: “ Hei, tu, stupido pazzo vattene via di qui. Acqua in bocca, se no, te ed il tuo uccello finite in pasto ai pesci”.
Kal sghignazzava ed il ciccione lo seguiva a ruota. Non c’era niente da ridere. L’uomo alzò l’animale imbalsamato verso il cielo e disse:
“Ci finirete voi a marcire in fondo al mare, razza di imbecilli! E’ arrivata la vostra ora! L’ora di tutti voi esseri immondi, vermi inutili!”
Mentre gridava queste parole, l’uccello aprì le sue splendide ali colorate, una Fenice in carne ed ossa spiccò il volo dalle mani di quell’uomo strano e senza nome. Andò a planare davanti all’entrata della metropolitana, gonfiò il petto, allargò le ali ed un grido stridulo svegliò la notte silenziosa. Kal ed il ciccione si fermarono di colpo, in lontananza
rumori di passi rimbombano lungo il tunnel, tanti passi, piccoli passi, veloci, velocissimi passi, si avvicinano, sempre più, sempre più. Kal contorce le labbra, nessun suono esce dalla gola secca, il ciccione impugna la pistola con forza, trema e le ginocchia sono di ricotta, Una strana forza magnetica li teneva bloccati lì, in quel momento, a quell'ora precisa, di quel giorno: 20/05/2050. L’anno della rivincita. La terra si riprendeva ciò che era suo, ciò che l’uomo le aveva rubato e distrutto. Assetata d’acqua, privata di ogni energia, spogliata dei suoi magnifici boschi, attanagliata dalla morsa delle macchine, invasa dai rifiuti tossici, la terra piangeva lacrime di distruzione. E solo dopo la morte ci può essere una nascita. La nascita di una nuova era: Geanova.
I passi metallici si avvicinano, tanti bambini vestiti di tute grigie con indosso scarpe metalliche facevano tintinnare le loro catene, un centinaio di fanciulli avanzava nella notte buia, sguardi fissi, occhi lucidi, mano nella mano, camminavano con passo militare, spedito, perfetto. Erano sbucati dal nulla, avevano seguito il richiamo del loro Capo: la Fenice, colei che avrebbe riportato la natura al suo posto e lo avrebbe fatto con l’aiuto dei bambini, le creature pure ed incontaminate, prive di cattiveria e crudeltà. Nuove donne e nuovi uomini sarebbero nati. Passarono davanti ai tre senza guardali, non li avevano visti, dovevano procedere, avanzare, raggiungere l'obbiettivo. Questi erano gli ordini, queste le condizioni per la loro sopravvivenza e la riuscita del progetto Geanova. I due malcapitati si guardavano in faccia sbalorditi, accantonarono per un momento le loro vite e Kal aprì bocca per primo:
“ Cosa sta succedendo? Mai visto una cosa del genere! Nessuno sembra accorgersi di tutto ciò. Soltanto noi. Dobbiamo seguirli, dobbiamo vedere dove vanno e cosa fanno.”
Il ciccione prese in mano la pistola e annuì in silenzio. L’uomo della Fenice, si parò davanti, incrociò le braccia e sentenziò:
“ Voi non andrete da nessuna parte. Rimanete qui. Attendo gli ordini della Fenice, chissà che ne sarà di voi ah, ah, ah”.
Il ghigno sulla faccia esprimeva sarcasmo e potere. Il ciccione puntò la pistola, premette il grilletto, s’inceppò. Premette di nuovo, nulla. Kal, mentre i due si fronteggiavano, cercava di allontanarsi piano, piano, a piccoli passi, li guardava e si allontanava, non si era accorto del marciapiede, inciampò e cadde. L’uomo della Fenice si voltò di scatto, il ciccione approfittò e lo colpì sulla testa con la pistola, l’altro gli prese il bavero del camice e lo sollevò da terra senza batter ciglio. Continuava a guardarlo fisso negli occhi e non diceva nulla. I tre minuti più lunghi della sua vita non passavano mai. Si sentiva in bilico sul burrone della sua esistenza e le apparse immediatamente vuota e priva di significato. Faceva il macellaio e trafficava in oggetti rubati, non si era sposato e continuava l’attività del padre, così, per inerzia, per comodità. Non gli piaceva scuoiare manzi e maiali e soprattutto odiava la sua clientela. Li serviva con disprezzo e superbia. Si credeva migliore di loro ma dipendeva dai loro soldi. Cercava di far soldi per andarsene via dall’Italia.


Monica

I tre minuti più lunghi della sua vita. Appeso al bavero, quasi a mezz’aria, gli occhi puntati negli occhi, come se quella forza magnetica lo incollasse al pugno che lo sorreggeva. Immagini confuse passavano nella sua testa: una lama di coltello luccicava in un bagliore scomposto, il coltellaccio da macellaio, il serramanico di Kal, il maestoso battito di ali dell’uccello. Tre lunghi minuti.
“Wejeh Kara! Puzzi di sangue e morte, non vali un cazzo, ma di merde come te non mi fido. Per ora vieni con me…”
Lo sconosciuto mollò la presa e il ciccione cadde a terra, come tramortito, con la testa di rimbalzo sul selciato.
In lontananza, il fioco rumore delle catene si perdeva nel buio fitto, immobile, intenso. Di Kal, nessuna traccia.

“… lunghe lingue di fuoco avvolgono il suo corpo, tra il crepitio dei ramoscelli che si spezzano, tra l’aroma delle spezie che intride l’aria: mirto, sandalo, mirra… una pira, come un nido da cui risorgere, da cui levarsi nuovamente in volo verso i limpidi cieli del mondo, verso l’albero sacro di Heliopolis, la città del sole.” Il fuoco riscaldava la fredda notte dell’altopiano, il bambino fissava rapito il crepitare delle fiamme, con la voce del vecchio Akil che continuava il racconto a lui così caro. “Ricorda, ogni 500 anni rinasce l’uccello di fuoco, le piume ritte in capo, l’una azzurra, l’altra rosa…
SBAM
Kal si svegliò di soprassalto al rumore dell’uscio sbattuto violentemente. Rivoli di sudore gli colavano dalla fronte, al buio accese la luce, si seddette sul letto ancora frastornato, e bevve un goccio d’acqua dal bicchiere posato sul comodino; nell’altra stanza, le voci concitate di Abasi e Bakila rompevano il silenzio. Ancora non riusciva a capire, a mettere a fuoco il sottile confine tra sogno e realtà, tra i ricordi africani e quanto di incredibele era successo nelle ore precedenti. Apparteneva tutto al sogno? L’uccello dalle piume di fuoco, la fila di spettrali bambini, e poi quell’uomo, quell’uomo finito sotto al treno… Socchiuse gli occhi e dalla sua bocca uscì un lungo sospiro, simile a un gemito. Una strana inquietudine lo pervadeva, un leggero tremore, come di febbrili brividi, scorreva nelle sue lunghe gambe. Prese il cappotto e si incamminò nella fredda mattina.
In men che non si dica riemerse nella bocca semicircolare. Il buio della notte aveva lasciato spazio all’algida luce del giorno, ma una calma surreale aleggiava nell’aria, oltre l’alba di una pigra domenica mattina. La nebbia della notte aveva lasciato spazio a una bianca foschia; spenti e ovattati, i rumori metropolitani si scomponevano nel sottofondo. Kal si avviò verso il fiume. Camminò e camminò, per ore, come sospinto da una forza ignota. Il gelo aveva steso su ogni cosa un sottile strato di brina, sui rami spogli, sul fango, sulle foglie che ricoprivano la terra. Il fiume scorreva lento, senza mormorio. Fuori città, la vegetazione si era fatta fitta, un inquieto mondo di piante, di acqua, di silenzio. Lungo il fiume, chiazze di schiuma maleodorante affioravano a tratti; talvolta, lungo l’argine, emergeva qualche bottiglie vuota, qualche pezzo di lurida plastica.
L’anfratto si nascondeva nel fitto della boscaglia, stretto e melmoso. Le scarpe di Kal affondavano nel fango, il camminare si faceva incerto e faticoso. Cosa l’avesse spinto fino a lì, certo, non sapeva. Al limitare dell’avvallamento si apriva l’accesso a quella che sembrava una grotta, un antro oscuro. Alto sul faggio, che ne delimitava l’entrata, immobile e silenzioso guardiano, l’uccello di fuoco. Un odore pungente, di legni aromatici bruciati, si spandeva nell’aria.
Ricorda, ogni 500 anni… un nido da cui risorgere, da cui levarsi nuovamente in volo verso i limpidi cieli del mondo…
Kal entrò avvinto, l’inquietudine che lo aveva pervaso fin dalla sera precedente, lentamente, lasciava spazio a una sorta di euforia, un’ebrezza leggera.
In cerchio, nelle loro divise grigie e logore, un gruppo di bambini sedeva raccolto intorno a un grande falò, lo sguardo fisso sulle lingue di fuoco.
“Sabah al-khir Kal, ti aspettavo.” A pronunciare quelle parole, l’Uomo della Fenice.
L’odore si era fatto più intenso, saliva penetrante nelle narici di Kal, fino ad arrivare al cervello, la testa prese a girare. Cadde svenuto.

Cosa aveva lasciato papà? Un’istantanea nell’album di famiglia e solo un altro mattone. Abbattere il muro, abbattere il muro. Ci sarebbero arrivati ad abbattere il muro, mancavano solo 48 ore per riappropriasi della propria coscienza, per ridare al mondo ciò che l’uomo aveva rubato e distrutto. Il sole doveva morire e rinascere, così come aveva fatto l’uccello di fuoco.

Lucia Rambaldi, seduta al tavolo della modesta cucina, sotto la fioca luce che pendeva dal soffitto, fissava smarrita la tazza di caffelatte fumante davante a lei. Aveva bisogno di qualcosa che la rifocillasse, che la mantenesse vigile, ma non riusciva a mandar giù neanche un sorso. Gli occhi gonfi dalle troppe lacrime versate, la stanchezza di una notte da incubo, passata all’obitorio per il riconoscimento del cadavere e il disbrigo delle pratiche burocratiche. Che parole avrebbe trovato per dire a due figli che il padre era tragicamente morto sotto le rotaie del treno metropolitano? Forse, avrebbe tergiversato, almeno per il momento. Dalle deposizioni dei primi testimoni si parlava di un possibile suicidio. Suicidio? Come suicidio? Con la testa ovattata dal pianto e dal dolore non riusciva a trovare spiegazione alcuna. Forse, un incidente, ma come? O forse qualcuno lo aveva spinto? Ma chi? Un malato di mente in un attimo di pura follia…



Paolino

La coda dell’occhio intravede qualcosa alla finestra: un bagliore iridescente. Ci mancavano anche le allucinazioni! È il caso di andare a riposare – pensa Lucia. Ma non fa in tempo ad alzarsi, che la cucina è inondata di colori. È un fenomeno incomprensibile, ma Lucia non ha affatto paura. Tutt’altro: Ecco com’era la fabbrica degli arcobaleni che sognavo da piccola! – esclama la donna dentro se stessa, e sorride. Il primo sorriso dopo due giorni. E così come è arrivato, lo sfolgorio se ne va. Lucia corre alla finestra appena in tempo: eccolo salire e in un attimo scomparire dentro la prima luce del giorno, come fosse il video visto all’indietro di una stella cadente.
Lucia sorride ancora. Nonostante il lutto, questo evento la riempie di gioia. La gioia, pensa, è un sentimento assurdo in questa situazione. Ma pensa anche: chi la obbliga a essere triste? Le convenzioni sociali? Perché il mondo circostante riesce a entrare così in profondità in lei e costringerla a risposte predefinite?
Squilla il telefono. Lucia sobbalza. A quest’ora gli uffici sono chiusi, i figli dormono, così come i conoscenti. Due, tre, quattro squilli e Lucia decide di rispondere, anche se non vorrebbe. Una voce sconosciuta.
“Hai visto?”
“Che cosa?” risponde spaventata.
“Come, che cosa? La luce.”
“Certo che l’ho vista. Lei ne sa qualcosa?”
“Hai visto in che direzione è scomparsa?”
“A est.”
“Bene. Seguila.”
“E come faccio?” Ma la voce ha riattaccato.
Come si fa a seguire una cosa del genere? – pensa smarrita. E la risposta le viene con la facilità che si ha da bambini, quando il pensiero sembra fuoriuscire dalle cose stesse, materializzato prima ancora che pensato. Con l’autobus!
E Lucia scende subito in strada, e corre alla fermata del [ROMANI! DITE VOI COSA DEVE PRENDERE PER ANDARE VERSO EST...]. Dopo un minuto, forse meno, ecco l’autobus. “Mi scusi, me lo fa lei il biglietto?” chiede all’autista.
“Sì, però con la maggiorazione.”
Lucia compra il biglietto, si siede e si immerge nei pensieri. Che senso ha tutto questo? Il bus corre e la sballotta sul sedile di legno. Il sole sta per spuntare. Il bus abbandona le case e nella strada deserta corre ancora di più. È terribilmente rumoroso, Lucia non lo sopporta più, si avvicina all’autista e gli chiede di andare più piano. Nessuna risposta. Alza la voce. Ancora niente. Urla, ma l’autista continua a guardare avanti, rigido. Lucia è inquieta, c’è qualcosa che non la convince. Perché l’autobus è vuoto e non ha fatto neppure una fermata? L’unico passeggero è lei. E perché la strada si sta allargando, e la velocità sta aumentando a dismisura? A un tratto il rumore cala e gli scossoni diventano un ondeggiare lieve, ed ecco: Lucia è paralizzata dentro, non sa se stupirsi o gridare di terrore. Il bus sta volando.
Un uomo si siede accanto a Lucia, che si scuote.
“Ma cosa sta succedendo?” gli chiede.
“Quello che deve succedere” risponde l’uomo. Lucia riconosce la voce: è quella che le ha fatto la strana telefonata.
“Dove stiamo andando? Io sono scesa subito, ho preso questo autobus, che però non è un autobus, non ci capisco più niente…”
“Tranquilla, va tutto come deve andare. Hai fatto quello che dovevi fare.”
Uno scossone. Lucia guarda fuori: l’autobus è tornato sulla terra ed è, così le pare, molto fuori Roma. La direzione, pensa, era quella di Tivoli, ma di quel paesaggio non riconosce niente, assolutamente niente.
“Vedi?” le dice l’uomo, “è tutto normale.”
Lucia sorride.
“Cos’hai da ridere? Questa è una cosa seria” dice l’uomo, accigliato.
“Era un pensiero che ho avuto stamattina. Quando ho visto la luce mi sono ricordata di una fissazione di quando ero piccola. Credevo che gli arcobaleni venissero costruiti da una fabbrica dietro la collina e che la ciminiera lo sputasse fuori via via. E quando sono uscita di casa ho anche pensato: ora vado a scoprire dove sta e come funziona.”
Ora anche l’uomo sorride.
“Bene. Sapevo che tu eri la persona giusta. Vieni, scendiamo.”
Il bus si ferma e le porte si aprono con un lieve soffio. Lucia e l’uomo si trovano in un piazzale. La palina della fermata riporta la dicitura “Capolinea”. La strada è trafficata come in un normale giorno feriale.
“Di là” dice l’uomo, e imbocca una stradina, che ben presto diventa un sentiero. Lucia lo segue tranquilla. Entrano in un bosco, costeggiano una grande parete rocciosa e di colpo si ritrovano all’ingresso di un antro, sotto un grande albero. Lucia guarda in su ed esclama:
“L’arcobaleno! Ecco dove nasce!”
L\'Amministratore ha disattivato l\'accesso in scrittura al pubblico.

Scriviamo una cosuccia insieme? 03/03/2014 11:26 #46

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Eccola 4 parte del racconto: buona lettura!

Roberto

Lo spiego per quelli che non hanno mai visto la stazione della metropolitana di Rebibbia, a Roma. L’entrata è una grande bocca semicircolare che affaccia su una piazzetta delimitata da alti muri di mattoncini grigi. La fermata si trova accanto alla Tiburtina da un lato, e al fiume Aniene dall’altro. D’inverno la sera su quella piazza si forma una specie di nebbiolina, acre, densa, composta di tutti gli scarichi delle fabbriche che il corso d’acqua raccoglie nel suo percorso verso le fogne. La maggior parte delle volte, dei cinque lampioni piazzati nel perimetro, ne funziona solo uno; l’ambiente è spettrale, se ci si dimentica dei claxon e dei rombi dei motorini che scorrazzano a meno di centro metri.
Proprio lì, in mezzo ai miasmi, un uomo basso, grasso, pelato a chiazze, cammina avanti e indietro, con fare nervoso. Indossa un camice da dottore, ma non si capisce bene perché quel suo agitarsi lo fa continuamente uscire dal campo illuminato dall’unica fonte di luce in quella piazza. Da dentro la stazione, il barrire di una bestia gigantesca rimbomba nei cunicoli sotterranei. Dall’uscita sbuca un drappello di persone. Il ciccione si blocca, scruta tra la gente, grugnisce e torna a fare passetti a vuoto. Dopo poco, solitario, esce trafelato un ultimo passeggero. E’ un giovane di colore, ha il fiatone, e trasporta un pesante fardello con sé. Si vede solo un attimo nella scena, perché appena fuori sparisce nel buio, e possiamo capire i suoi spostamenti solo concentrandoci sui suoi occhi bianchi, splendenti anche nelle tenebre. Lo vediamo ricomparire per intero solo quando si porta sotto il lampione. Allora scarica il suo bagaglio, e ansimando chiede scusa al grassone. Quello lo osserva serio.
“Che cazzo hai fatto Kal? Qui andiamo male Kal, lo sai vero?”
Il giovane di colore, scuote la testa, fa un grande respiro per recuperare l’aria spesa nel correre.
“Mi devi scusare, ma mi è successa una cosa incredibile. Cioè non so neppure se mi, anzi ci, è capitata sul serio…”.
Il pelato si gira, dandogli le spalle. “Ma come, io trascuro pure il lavoro per essere puntuale. E tu mi fai aspettare venti minuti? Cose da pazzi…”
Il ragazzo cerca di fargli capire: “La metropolitana…”
L’altro fa qualche passo avanti, si allontana nell’oscurità. “Non me ne frega un cazzo, Kal. Stai zitto. Hai portato almeno quello che dovevi?”.
Kal si china sul fagotto, lo apre e infila le mani dentro scuotendole. Produce un rumore metallico che rimbomba tra i muri di mattoncini.
“Bene”, sentenzia il ciccione.
Poi fa sparire una mano dentro il camice e tira fuori una pistola. Stende il braccio, che entra nell’inquadratura del fascio di luce, e la canna della pistola arriva a meno di tre centimetri dal naso del ragazzo.
Da dietro irrompono dei passi. Qualcuno si sta avvicinando lentamente. Il ciccione riporta la mano al suo fianco, senza smettere di impugnare l’arma, e si gira animale a guardare chi arriva. Kal osserva prima la pistola, poi l’ombra che si distingue tra la nebbiolina acida. C’è un uomo, pochi metri più giù, tiene qualcosa in mano che quando arriva vicino al lampione distinguiamo essere un uccello. Lo stringe a doppia presa, tenendolo leggermente proteso in avanti. La bestia è immobile, non si comprende se è un placido vivo o un morto fervente. Lo sconosciuto si ferma a pochi passi dal ciccione che lo guarda come un cane da caccia osserva una lepre.
“Sapete?”, dice l’ospite, “Questa mattina una persona si è buttata sotto un treno. Il mio treno. Io c’ero. Alle sette e tredici in punto.”
Silenzio.
“Allora ho pensato che oggi non mi andava di andare a lavoro. Ho camminato un po’ per le strade, senza meta. Avevo uno stato d’animo strano. Non so se avete presente i barattoli di latta. Ecco. Ad un certo punto l’ho visto”. E con il naso indica l’uccello, fermo che pare imbalsamato. “Voleva attraversare la strada. Me lo ha fatto capire: mi guardava e indicava l’altro marciapiede. Così l’ho preso, e gli ho dato un passaggio. Ero soddisfatto, avevo svolto un bel lavoro, ma quando vado a rimettere l’uccello a terra, quello non si muove. Era praticamente stecchito, come ora. Vedete?”
Mostra l’uccello ai due agitandolo in aria, inutilmente, perché non muove nemmeno la testa. Sembra di plastica.
“Voi pensate sia io? A fare queste cose intendo”
Il ciccione lo osserva con la sua solita faccia da toro castrato, Kal, invece, scuote la testa leggermente. A quel lieve movimento la pistola scatta minacciosa come un serpente a sonagli. I tre rimangono zitti. Dentro la stazione della metropolitana si spengono le ultime luci, ronzando calano le serrande rinchiudendo per la notte la bestia gigantesca che la abita. Il traffico è diminuito, e c’è un’insolita aria di calma urbana.


Federica

Kal apre il suo zaino con gesti calibrati puntando sempre gli occhi sulla canna della pistola. ”Hei amico, calmati, ecco qui, quello che cercavi. Ho trovato tutto.”
Kal comincia a sfilare uno ad uno gli oggetti di valore rubati due ore prima: un trofeo di calcio in oro massiccio, due collane di diamanti, un tablet, un cellulare, e le chiavi di un’auto. Depone tutto sul marciapiede. Il ciccione abbassa la pistola e si china per guardare la refurtiva.
“Bene, bene, ottimo lavoro Kal. E le chiavi?”
“ Quelle sono di una Mercedes parcheggiata in Via Manzoni. Quell’auto vale un bel po’ di soldi. E ora sgancia la grana, bello”.
Gli occhi di Kal lanciavano lame affilate. Tirò fuori dalla tasca posteriore dei Jeans un coltello serramanico e lo puntò contro il ciccione.
“Hei, hei, calma, calma, amico, ti saldo subito.”
Il ciccione sapeva quanto Kal fosse bravo con il coltello, l’avrebbe fatto secco prima ancora di premere il grilletto. Aprì il portafoglio e gli consegnò più di quello pattuito. Mentre Kal contava i soldi, il ciccione mise tutta la refurtiva nello zaino e se lo caricò in spalla. L’uomo con l’uccello guardava in silenzio, non era né sorpreso, né impaurito, era calmo e composto.
Kal lo guardò: “ Hei, tu, stupido pazzo vattene via di qui. Acqua in bocca, se no, te ed il tuo uccello finite in pasto ai pesci”.
Kal sghignazzava ed il ciccione lo seguiva a ruota. Non c’era niente da ridere. L’uomo alzò l’animale imbalsamato verso il cielo e disse:
“Ci finirete voi a marcire in fondo al mare, razza di imbecilli! E’ arrivata la vostra ora! L’ora di tutti voi esseri immondi, vermi inutili!”
Mentre gridava queste parole, l’uccello aprì le sue splendide ali colorate, una Fenice in carne ed ossa spiccò il volo dalle mani di quell’uomo strano e senza nome. Andò a planare davanti all’entrata della metropolitana, gonfiò il petto, allargò le ali ed un grido stridulo svegliò la notte silenziosa. Kal ed il ciccione si fermarono di colpo, in lontananza
rumori di passi rimbombano lungo il tunnel, tanti passi, piccoli passi, veloci, velocissimi passi, si avvicinano, sempre più, sempre più. Kal contorce le labbra, nessun suono esce dalla gola secca, il ciccione impugna la pistola con forza, trema e le ginocchia sono di ricotta, Una strana forza magnetica li teneva bloccati lì, in quel momento, a quell'ora precisa, di quel giorno: 20/05/2050. L’anno della rivincita. La terra si riprendeva ciò che era suo, ciò che l’uomo le aveva rubato e distrutto. Assetata d’acqua, privata di ogni energia, spogliata dei suoi magnifici boschi, attanagliata dalla morsa delle macchine, invasa dai rifiuti tossici, la terra piangeva lacrime di distruzione. E solo dopo la morte ci può essere una nascita. La nascita di una nuova era: Geanova.
I passi metallici si avvicinano, tanti bambini vestiti di tute grigie con indosso scarpe metalliche facevano tintinnare le loro catene, un centinaio di fanciulli avanzava nella notte buia, sguardi fissi, occhi lucidi, mano nella mano, camminavano con passo militare, spedito, perfetto. Erano sbucati dal nulla, avevano seguito il richiamo del loro Capo: la Fenice, colei che avrebbe riportato la natura al suo posto e lo avrebbe fatto con l’aiuto dei bambini, le creature pure ed incontaminate, prive di cattiveria e crudeltà. Nuove donne e nuovi uomini sarebbero nati. Passarono davanti ai tre senza guardali, non li avevano visti, dovevano procedere, avanzare, raggiungere l'obbiettivo. Questi erano gli ordini, queste le condizioni per la loro sopravvivenza e la riuscita del progetto Geanova. I due malcapitati si guardavano in faccia sbalorditi, accantonarono per un momento le loro vite e Kal aprì bocca per primo:
“ Cosa sta succedendo? Mai visto una cosa del genere! Nessuno sembra accorgersi di tutto ciò. Soltanto noi. Dobbiamo seguirli, dobbiamo vedere dove vanno e cosa fanno.”
Il ciccione prese in mano la pistola e annuì in silenzio. L’uomo della Fenice, si parò davanti, incrociò le braccia e sentenziò:
“ Voi non andrete da nessuna parte. Rimanete qui. Attendo gli ordini della Fenice, chissà che ne sarà di voi ah, ah, ah”.
Il ghigno sulla faccia esprimeva sarcasmo e potere. Il ciccione puntò la pistola, premette il grilletto, s’inceppò. Premette di nuovo, nulla. Kal, mentre i due si fronteggiavano, cercava di allontanarsi piano, piano, a piccoli passi, li guardava e si allontanava, non si era accorto del marciapiede, inciampò e cadde. L’uomo della Fenice si voltò di scatto, il ciccione approfittò e lo colpì sulla testa con la pistola, l’altro gli prese il bavero del camice e lo sollevò da terra senza batter ciglio. Continuava a guardarlo fisso negli occhi e non diceva nulla. I tre minuti più lunghi della sua vita non passavano mai. Si sentiva in bilico sul burrone della sua esistenza e le apparse immediatamente vuota e priva di significato. Faceva il macellaio e trafficava in oggetti rubati, non si era sposato e continuava l’attività del padre, così, per inerzia, per comodità. Non gli piaceva scuoiare manzi e maiali e soprattutto odiava la sua clientela. Li serviva con disprezzo e superbia. Si credeva migliore di loro ma dipendeva dai loro soldi. Cercava di far soldi per andarsene via dall’Italia.


Monica

I tre minuti più lunghi della sua vita. Appeso al bavero, quasi a mezz’aria, gli occhi puntati negli occhi, come se quella forza magnetica lo incollasse al pugno che lo sorreggeva. Immagini confuse passavano nella sua testa: una lama di coltello luccicava in un bagliore scomposto, il coltellaccio da macellaio, il serramanico di Kal, il maestoso battito di ali dell’uccello. Tre lunghi minuti.
“Wejeh Kara! Puzzi di sangue e morte, non vali un cazzo, ma di merde come te non mi fido. Per ora vieni con me…”
Lo sconosciuto mollò la presa e il ciccione cadde a terra, come tramortito, con la testa di rimbalzo sul selciato.
In lontananza, il fioco rumore delle catene si perdeva nel buio fitto, immobile, intenso. Di Kal, nessuna traccia.

“… lunghe lingue di fuoco avvolgono il suo corpo, tra il crepitio dei ramoscelli che si spezzano, tra l’aroma delle spezie che intride l’aria: mirto, sandalo, mirra… una pira, come un nido da cui risorgere, da cui levarsi nuovamente in volo verso i limpidi cieli del mondo, verso l’albero sacro di Heliopolis, la città del sole.” Il fuoco riscaldava la fredda notte dell’altopiano, il bambino fissava rapito il crepitare delle fiamme, con la voce del vecchio Akil che continuava il racconto a lui così caro. “Ricorda, ogni 500 anni rinasce l’uccello di fuoco, le piume ritte in capo, l’una azzurra, l’altra rosa…
SBAM
Kal si svegliò di soprassalto al rumore dell’uscio sbattuto violentemente. Rivoli di sudore gli colavano dalla fronte, al buio accese la luce, si seddette sul letto ancora frastornato, e bevve un goccio d’acqua dal bicchiere posato sul comodino; nell’altra stanza, le voci concitate di Abasi e Bakila rompevano il silenzio. Ancora non riusciva a capire, a mettere a fuoco il sottile confine tra sogno e realtà, tra i ricordi africani e quanto di incredibele era successo nelle ore precedenti. Apparteneva tutto al sogno? L’uccello dalle piume di fuoco, la fila di spettrali bambini, e poi quell’uomo, quell’uomo finito sotto al treno… Socchiuse gli occhi e dalla sua bocca uscì un lungo sospiro, simile a un gemito. Una strana inquietudine lo pervadeva, un leggero tremore, come di febbrili brividi, scorreva nelle sue lunghe gambe. Prese il cappotto e si incamminò nella fredda mattina.
In men che non si dica riemerse nella bocca semicircolare. Il buio della notte aveva lasciato spazio all’algida luce del giorno, ma una calma surreale aleggiava nell’aria, oltre l’alba di una pigra domenica mattina. La nebbia della notte aveva lasciato spazio a una bianca foschia; spenti e ovattati, i rumori metropolitani si scomponevano nel sottofondo. Kal si avviò verso il fiume. Camminò e camminò, per ore, come sospinto da una forza ignota. Il gelo aveva steso su ogni cosa un sottile strato di brina, sui rami spogli, sul fango, sulle foglie che ricoprivano la terra. Il fiume scorreva lento, senza mormorio. Fuori città, la vegetazione si era fatta fitta, un inquieto mondo di piante, di acqua, di silenzio. Lungo il fiume, chiazze di schiuma maleodorante affioravano a tratti; talvolta, lungo l’argine, emergeva qualche bottiglie vuota, qualche pezzo di lurida plastica.
L’anfratto si nascondeva nel fitto della boscaglia, stretto e melmoso. Le scarpe di Kal affondavano nel fango, il camminare si faceva incerto e faticoso. Cosa l’avesse spinto fino a lì, certo, non sapeva. Al limitare dell’avvallamento si apriva l’accesso a quella che sembrava una grotta, un antro oscuro. Alto sul faggio, che ne delimitava l’entrata, immobile e silenzioso guardiano, l’uccello di fuoco. Un odore pungente, di legni aromatici bruciati, si spandeva nell’aria.
Ricorda, ogni 500 anni… un nido da cui risorgere, da cui levarsi nuovamente in volo verso i limpidi cieli del mondo…
Kal entrò avvinto, l’inquietudine che lo aveva pervaso fin dalla sera precedente, lentamente, lasciava spazio a una sorta di euforia, un’ebrezza leggera.
In cerchio, nelle loro divise grigie e logore, un gruppo di bambini sedeva raccolto intorno a un grande falò, lo sguardo fisso sulle lingue di fuoco.
“Sabah al-khir Kal, ti aspettavo.” A pronunciare quelle parole, l’Uomo della Fenice.
L’odore si era fatto più intenso, saliva penetrante nelle narici di Kal, fino ad arrivare al cervello, la testa prese a girare. Cadde svenuto.

Cosa aveva lasciato papà? Un’istantanea nell’album di famiglia e solo un altro mattone. Abbattere il muro, abbattere il muro. Ci sarebbero arrivati ad abbattere il muro, mancavano solo 48 ore per riappropriasi della propria coscienza, per ridare al mondo ciò che l’uomo aveva rubato e distrutto. Il sole doveva morire e rinascere, così come aveva fatto l’uccello di fuoco.

Lucia Rambaldi, seduta al tavolo della modesta cucina, sotto la fioca luce che pendeva dal soffitto, fissava smarrita la tazza di caffelatte fumante davante a lei. Aveva bisogno di qualcosa che la rifocillasse, che la mantenesse vigile, ma non riusciva a mandar giù neanche un sorso. Gli occhi gonfi dalle troppe lacrime versate, la stanchezza di una notte da incubo, passata all’obitorio per il riconoscimento del cadavere e il disbrigo delle pratiche burocratiche. Che parole avrebbe trovato per dire a due figli che il padre era tragicamente morto sotto le rotaie del treno metropolitano? Forse, avrebbe tergiversato, almeno per il momento. Dalle deposizioni dei primi testimoni si parlava di un possibile suicidio. Suicidio? Come suicidio? Con la testa ovattata dal pianto e dal dolore non riusciva a trovare spiegazione alcuna. Forse, un incidente, ma come? O forse qualcuno lo aveva spinto? Ma chi? Un malato di mente in un attimo di pura follia…



Paolino

La coda dell’occhio intravede qualcosa alla finestra: un bagliore iridescente. Ci mancavano anche le allucinazioni! È il caso di andare a riposare – pensa Lucia. Ma non fa in tempo ad alzarsi, che la cucina è inondata di colori. È un fenomeno incomprensibile, ma Lucia non ha affatto paura. Tutt’altro: Ecco com’era la fabbrica degli arcobaleni che sognavo da piccola! – esclama la donna dentro se stessa, e sorride. Il primo sorriso dopo due giorni. E così come è arrivato, lo sfolgorio se ne va. Lucia corre alla finestra appena in tempo: eccolo salire e in un attimo scomparire dentro la prima luce del giorno, come fosse il video visto all’indietro di una stella cadente.
Lucia sorride ancora. Nonostante il lutto, questo evento la riempie di gioia. La gioia, pensa, è un sentimento assurdo in questa situazione. Ma pensa anche: chi la obbliga a essere triste? Le convenzioni sociali? Perché il mondo circostante riesce a entrare così in profondità in lei e costringerla a risposte predefinite?
Squilla il telefono. Lucia sobbalza. A quest’ora gli uffici sono chiusi, i figli dormono, così come i conoscenti. Due, tre, quattro squilli e Lucia decide di rispondere, anche se non vorrebbe. Una voce sconosciuta.
“Hai visto?”
“Che cosa?” risponde spaventata.
“Come, che cosa? La luce.”
“Certo che l’ho vista. Lei ne sa qualcosa?”
“Hai visto in che direzione è scomparsa?”
“A est.”
“Bene. Seguila.”
“E come faccio?” Ma la voce ha riattaccato.
Come si fa a seguire una cosa del genere? – pensa smarrita. E la risposta le viene con la facilità che si ha da bambini, quando il pensiero sembra fuoriuscire dalle cose stesse, materializzato prima ancora che pensato. Con l’autobus!
E Lucia scende subito in strada, e corre alla fermata del [ROMANI! DITE VOI COSA DEVE PRENDERE PER ANDARE VERSO EST...]. Dopo un minuto, forse meno, ecco l’autobus. “Mi scusi, me lo fa lei il biglietto?” chiede all’autista.
“Sì, però con la maggiorazione.”
Lucia compra il biglietto, si siede e si immerge nei pensieri. Che senso ha tutto questo? Il bus corre e la sballotta sul sedile di legno. Il sole sta per spuntare. Il bus abbandona le case e nella strada deserta corre ancora di più. È terribilmente rumoroso, Lucia non lo sopporta più, si avvicina all’autista e gli chiede di andare più piano. Nessuna risposta. Alza la voce. Ancora niente. Urla, ma l’autista continua a guardare avanti, rigido. Lucia è inquieta, c’è qualcosa che non la convince. Perché l’autobus è vuoto e non ha fatto neppure una fermata? L’unico passeggero è lei. E perché la strada si sta allargando, e la velocità sta aumentando a dismisura? A un tratto il rumore cala e gli scossoni diventano un ondeggiare lieve, ed ecco: Lucia è paralizzata dentro, non sa se stupirsi o gridare di terrore. Il bus sta volando.
Un uomo si siede accanto a Lucia, che si scuote.
“Ma cosa sta succedendo?” gli chiede.
“Quello che deve succedere” risponde l’uomo. Lucia riconosce la voce: è quella che le ha fatto la strana telefonata.
“Dove stiamo andando? Io sono scesa subito, ho preso questo autobus, che però non è un autobus, non ci capisco più niente…”
“Tranquilla, va tutto come deve andare. Hai fatto quello che dovevi fare.”
Uno scossone. Lucia guarda fuori: l’autobus è tornato sulla terra ed è, così le pare, molto fuori Roma. La direzione, pensa, era quella di Tivoli, ma di quel paesaggio non riconosce niente, assolutamente niente.
“Vedi?” le dice l’uomo, “è tutto normale.”
Lucia sorride.
“Cos’hai da ridere? Questa è una cosa seria” dice l’uomo, accigliato.
“Era un pensiero che ho avuto stamattina. Quando ho visto la luce mi sono ricordata di una fissazione di quando ero piccola. Credevo che gli arcobaleni venissero costruiti da una fabbrica dietro la collina e che la ciminiera lo sputasse fuori via via. E quando sono uscita di casa ho anche pensato: ora vado a scoprire dove sta e come funziona.”
Ora anche l’uomo sorride.
“Bene. Sapevo che tu eri la persona giusta. Vieni, scendiamo.”
Il bus si ferma e le porte si aprono con un lieve soffio. Lucia e l’uomo si trovano in un piazzale. La palina della fermata riporta la dicitura “Capolinea”. La strada è trafficata come in un normale giorno feriale.
“Di là” dice l’uomo, e imbocca una stradina, che ben presto diventa un sentiero. Lucia lo segue tranquilla. Entrano in un bosco, costeggiano una grande parete rocciosa e di colpo si ritrovano all’ingresso di un antro, sotto un grande albero. Lucia guarda in su ed esclama:
“L’arcobaleno! Ecco dove nasce!”
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Scriviamo una cosuccia insieme? 27/11/2013 19:32 #45

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Siamo arrivati alla terza parte del nostro "esperimento" di scrittura a + mani, ma non c'è prorpio nessuno che si unisce a noi??? Stiamo cercando il quinto. :silly:

di seguito le 3 parti consecutive, così che possiate farvi un'idea. Si tratta di scrivere sulle 3 cartelle a testa, 2 giri a testa. Noi ci stiamo divertendo :cheer:

Roberto
Lo spiego per quelli che non hanno mai visto la stazione della metropolitana di Rebibbia, a Roma. L’entrata è una grande bocca semicircolare che affaccia su una piazzetta delimitata da alti muri di mattoncini grigi. La fermata si trova accanto alla Tiburtina da un lato, e al fiume Aniene dall’altro. D’inverno la sera su quella piazza si forma una specie di nebbiolina, acre, densa, composta di tutti gli scarichi delle fabbriche che il corso d’acqua raccoglie nel suo percorso verso le fogne. La maggior parte delle volte, dei cinque lampioni piazzati nel perimetro, ne funziona solo uno; l’ambiente è spettrale, se ci si dimentica dei claxon e dei rombi dei motorini che scorrazzano a meno di centro metri.
Proprio lì, in mezzo ai miasmi, un uomo basso, grasso, pelato a chiazze, cammina avanti e indietro, con fare nervoso. Indossa un camice da dottore, ma non si capisce bene perché quel suo agitarsi lo fa continuamente uscire dal campo illuminato dall’unica fonte di luce in quella piazza. Da dentro la stazione, il barrire di una bestia gigantesca rimbomba nei cunicoli sotterranei. Dall’uscita sbuca un drappello di persone. Il ciccione si blocca, scruta tra la gente, grugnisce e torna a fare passetti a vuoto. Dopo poco, solitario, esce trafelato un ultimo passeggero. E’ un giovane di colore, ha il fiatone, e trasporta un pesante fardello con sé. Si vede solo un attimo nella scena, perché appena fuori sparisce nel buio, e possiamo capire i suoi spostamenti solo concentrandoci sui suoi occhi bianchi, splendenti anche nelle tenebre. Lo vediamo ricomparire per intero solo quando si porta sotto il lampione. Allora scarica il suo bagaglio, e ansimando chiede scusa al grassone. Quello lo osserva serio.
“Che cazzo hai fatto Kal? Qui andiamo male Kal, lo sai vero?”
Il giovane di colore, scuote la testa, fa un grande respiro per recuperare l’aria spesa nel correre.
“Mi devi scusare, ma mi è successa una cosa incredibile. Cioè non so neppure se mi, anzi ci, è capitata sul serio…”.
Il pelato si gira, dandogli le spalle. “Ma come, io trascuro pure il lavoro per essere puntuale. E tu mi fai aspettare venti minuti? Cose da pazzi…”
Il ragazzo cerca di fargli capire: “La metropolitana…”
L’altro fa qualche passo avanti, si allontana nell’oscurità. “Non me ne frega un cazzo, Kal. Stai zitto. Hai portato almeno quello che dovevi?”.
Kal si china sul fagotto, lo apre e infila le mani dentro scuotendole. Produce un rumore metallico che rimbomba tra i muri di mattoncini.
“Bene”, sentenzia il ciccione.
Poi fa sparire una mano dentro il camice e tira fuori una pistola. Stende il braccio, che entra nell’inquadratura del fascio di luce, e la canna della pistola arriva a meno di tre centimetri dal naso del ragazzo.
Da dietro irrompono dei passi. Qualcuno si sta avvicinando lentamente. Il ciccione riporta la mano al suo fianco, senza smettere di impugnare l’arma, e si gira animale a guardare chi arriva. Kal osserva prima la pistola, poi l’ombra che si distingue tra la nebbiolina acida. C’è un uomo, pochi metri più giù, tiene qualcosa in mano che quando arriva vicino al lampione distinguiamo essere un uccello. Lo stringe a doppia presa, tenendolo leggermente proteso in avanti. La bestia è immobile, non si comprende se è un placido vivo o un morto fervente. Lo sconosciuto si ferma a pochi passi dal ciccione che lo guarda come un cane da caccia osserva una lepre.
“Sapete?”, dice l’ospite, “Questa mattina una persona si è buttata sotto un treno. Il mio treno. Io c’ero. Alle sette e tredici in punto.”
Silenzio.
“Allora ho pensato che oggi non mi andava di andare a lavoro. Ho camminato un po’ per le strade, senza meta. Avevo uno stato d’animo strano. Non so se avete presente i barattoli di latta. Ecco. Ad un certo punto l’ho visto”. E con il naso indica l’uccello, fermo che pare imbalsamato. “Voleva attraversare la strada. Me lo ha fatto capire: mi guardava e indicava l’altro marciapiede. Così l’ho preso, e gli ho dato un passaggio. Ero soddisfatto, avevo svolto un bel lavoro, ma quando vado a rimettere l’uccello a terra, quello non si muove. Era praticamente stecchito, come ora. Vedete?”
Mostra l’uccello ai due agitandolo in aria, inutilmente, perché non muove nemmeno la testa. Sembra di plastica.
“Voi pensate sia io? A fare queste cose intendo”
Il ciccione lo osserva con la sua solita faccia da toro castrato, Kal, invece, scuote la testa leggermente. A quel lieve movimento la pistola scatta minacciosa come un serpente a sonagli. I tre rimangono zitti. Dentro la stazione della metropolitana si spengono le ultime luci, ronzando calano le serrande rinchiudendo per la notte la bestia gigantesca che la abita. Il traffico è diminuito, e c’è un’insolita aria di calma urbana.

Federica
Kal apre il suo zaino con gesti calibrati puntando sempre gli occhi sulla canna della pistola. ”Hei amico, calmati, ecco qui, quello che cercavi. Ho trovato tutto.”
Kal comincia a sfilare uno ad uno gli oggetti di valore rubati due ore prima: un trofeo di calcio in oro massiccio, due collane di diamanti, un tablet, un cellulare, e le chiavi di un’auto. Depone tutto sul marciapiede. Il ciccione abbassa la pistola e si china per guardare la refurtiva.
“Bene, bene, ottimo lavoro Kal. E le chiavi?”
“ Quelle sono di una Mercedes parcheggiata in Via Manzoni. Quell’auto vale un bel po’ di soldi. E ora sgancia la grana, bello”.
Gli occhi di Kal lanciavano lame affilate. Tirò fuori dalla tasca posteriore dei Jeans un coltello serramanico e lo puntò contro il ciccione.
“Hei, hei, calma, calma, amico, ti saldo subito.”
Il ciccione sapeva quanto Kal fosse bravo con il coltello, l’avrebbe fatto secco prima ancora di premere il grilletto. Aprì il portafoglio e gli consegnò più di quello pattuito. Mentre Kal contava i soldi, il ciccione mise tutta la refurtiva nello zaino e se lo caricò in spalla. L’uomo con l’uccello guardava in silenzio, non era né sorpreso, né impaurito, era calmo e composto.
Kal lo guardò: “ Hei, tu, stupido pazzo vattene via di qui. Acqua in bocca, se no, te ed il tuo uccello finite in pasto ai pesci”.
Kal sghignazzava ed il ciccione lo seguiva a ruota. Non c’era niente da ridere. L’uomo alzò l’animale imbalsamato verso il cielo e disse:
“Ci finirete voi a marcire in fondo al mare, razza di imbecilli! E’ arrivata la vostra ora! L’ora di tutti voi esseri immondi, vermi inutili!”
Mentre gridava queste parole, l’uccello aprì le sue splendide ali colorate, una Fenice in carne ed ossa spiccò il volo dalle mani di quell’uomo strano e senza nome. Andò a planare davanti all’entrata della metropolitana, gonfiò il petto, allargò le ali ed un grido stridulo svegliò la notte silenziosa. Kal ed il ciccione si fermarono di colpo, in lontananza
rumori di passi rimbombano lungo il tunnel, tanti passi, piccoli passi, veloci, velocissimi passi, si avvicinano, sempre più, sempre più. Kal contorce le labbra, nessun suono esce dalla gola secca, il ciccione impugna la pistola con forza, trema e le ginocchia sono di ricotta, Una strana forza magnetica li teneva bloccati lì, in quel momento, a quell'ora precisa, di quel giorno: 20/05/2050. L’anno della rivincita. La terra si riprendeva ciò che era suo, ciò che l’uomo le aveva rubato e distrutto. Assetata d’acqua, privata di ogni energia, spogliata dei suoi magnifici boschi, attanagliata dalla morsa delle macchine, invasa dai rifiuti tossici, la terra piangeva lacrime di distruzione. E solo dopo la morte ci può essere una nascita. La nascita di una nuova era: Geanova.
I passi metallici si avvicinano, tanti bambini vestiti di tute grigie con indosso scarpe metalliche facevano tintinnare le loro catene, un centinaio di fanciulli avanzava nella notte buia, sguardi fissi, occhi lucidi, mano nella mano, camminavano con passo militare, spedito, perfetto. Erano sbucati dal nulla, avevano seguito il richiamo del loro Capo: la Fenice, colei che avrebbe riportato la natura al suo posto e lo avrebbe fatto con l’aiuto dei bambini, le creature pure ed incontaminate, prive di cattiveria e crudeltà. Nuove donne e nuovi uomini sarebbero nati. Passarono davanti ai tre senza guardali, non li avevano visti, dovevano procedere, avanzare, raggiungere l'obbiettivo. Questi erano gli ordini, queste le condizioni per la loro sopravvivenza e la riuscita del progetto Geanova. I due malcapitati si guardavano in faccia sbalorditi, accantonarono per un momento le loro vite e Kal aprì bocca per primo:
“ Cosa sta succedendo? Mai visto una cosa del genere! Nessuno sembra accorgersi di tutto ciò. Soltanto noi. Dobbiamo seguirli, dobbiamo vedere dove vanno e cosa fanno.”
Il ciccione prese in mano la pistola e annuì in silenzio. L’uomo della Fenice, si parò davanti, incrociò le braccia e sentenziò:
“ Voi non andrete da nessuna parte. Rimanete qui. Attendo gli ordini della Fenice, chissà che ne sarà di voi ah, ah, ah”.
Il ghigno sulla faccia esprimeva sarcasmo e potere. Il ciccione puntò la pistola, premette il grilletto, s’inceppò. Premette di nuovo, nulla. Kal, mentre i due si fronteggiavano, cercava di allontanarsi piano, piano, a piccoli passi, li guardava e si allontanava, non si era accorto del marciapiede, inciampò e cadde. L’uomo della Fenice si voltò di scatto, il ciccione approfittò e lo colpì sulla testa con la pistola, l’altro gli prese il bavero del camice e lo sollevò da terra senza batter ciglio. Continuava a guardarlo fisso negli occhi e non diceva nulla. I tre minuti più lunghi della sua vita non passavano mai. Si sentiva in bilico sul burrone della sua esistenza e le apparse immediatamente vuota e priva di significato. Faceva il macellaio e trafficava in oggetti rubati, non si era sposato e continuava l’attività del padre, così, per inerzia, per comodità. Non gli piaceva scuoiare manzi e maiali e soprattutto odiava la sua clientela. Li serviva con disprezzo e superbia. Si credeva migliore di loro ma dipendeva dai loro soldi. Cercava di far soldi per andarsene via dall’Italia.

Monica
I tre minuti più lunghi della sua vita. Appeso al bavero, quasi a mezz’aria, gli occhi puntati negli occhi, come se quella forza magnetica lo incollasse al pugno che lo sorreggeva. Immagini confuse passavano nella sua testa: una lama di coltello luccicava in un bagliore scomposto, il coltellaccio da macellaio, il serramanico di Kal, il maestoso battito di ali dell’uccello. Tre lunghi minuti.
“Wejeh Kara! Puzzi di sangue e morte, non vali un cazzo, ma di merde come te non mi fido. Per ora vieni con me…”
Lo sconosciuto mollò la presa e il ciccione cadde a terra, come tramortito, con la testa di rimbalzo sul selciato.
In lontananza, il fioco rumore delle catene si perdeva nel buio fitto, immobile, intenso. Di Kal, nessuna traccia.

“… lunghe lingue di fuoco avvolgono il suo corpo, tra il crepitio dei ramoscelli che si spezzano, tra l’aroma delle spezie che intride l’aria: mirto, sandalo, mirra… una pira, come un nido da cui risorgere, da cui levarsi nuovamente in volo verso i limpidi cieli del mondo, verso l’albero sacro di Heliopolis, la città del sole.” Il fuoco riscaldava la fredda notte dell’altopiano, il bambino fissava rapito il crepitare delle fiamme, con la voce del vecchio Akil che continuava il racconto a lui così caro. “Ricorda, ogni 500 anni rinasce l’uccello di fuoco, le piume ritte in capo, l’una azzurra, l’altra rosa…”
SBAM
Kal si svegliò di soprassalto al rumore dell’uscio sbattuto violentemente. Rivoli di sudore gli colavano dalla fronte, al buio accese la luce, si seddette sul letto ancora frastornato, e bevve un goccio d’acqua dal bicchiere posato sul comodino; nell’altra stanza, le voci concitate di Abasi e Bakila rompevano il silenzio. Ancora non riusciva a capire, a mettere a fuoco il sottile confine tra sogno e realtà, tra i ricordi africani e quanto di incredibele era successo nelle ore precedenti. Apparteneva tutto al sogno? L’uccello dalle piume di fuoco, la fila di spettrali bambini, e poi quell’uomo, quell’uomo finito sotto al treno… Socchiuse gli occhi e dalla sua bocca uscì un lungo sospiro, simile a un gemito. Una strana inquietudine lo pervadeva, un leggero tremore, come di febbrili brividi, scorreva nelle sue lunghe gambe. Prese il cappotto e si incamminò nella fredda mattina.
In men che non si dica riemerse nella bocca semicircolare. Il buio della notte aveva lasciato spazio all’algida luce del giorno, ma una calma surreale aleggiava nell’aria, oltre l’alba di una pigra domenica mattina. La nebbia della notte aveva lasciato spazio a una bianca foschia; spenti e ovattati, i rumori metropolitani si scomponevano nel sottofondo. Kal si avviò verso il fiume. Camminò e camminò, per ore, come sospinto da una forza ignota. Il gelo aveva steso su ogni cosa un sottile strato di brina, sui rami spogli, sul fango, sulle foglie che ricoprivano la terra. Il fiume scorreva lento, senza mormorio. Fuori città, la vegetazione si era fatta fitta, un inquieto mondo di piante, di acqua, di silenzio. Lungo il fiume, chiazze di schiuma maleodorante affioravano a tratti; talvolta, lungo l’argine, emergeva qualche bottiglie vuota, qualche pezzo di lurida plastica.
L’anfratto si nascondeva nel fitto della boscaglia, stretto e melmoso. Le scarpe di Kal affondavano nel fango, il camminare si faceva incerto e faticoso. Cosa l’avesse spinto fino a lì, certo, non sapeva. Al limitare dell’avvallamento si apriva l’accesso a quella che sembrava una grotta, un antro oscuro. Alto sul faggio, che ne delimitava l’entrata, immobile e silenzioso guardiano, l’uccello di fuoco. Un odore pungente, di legni aromatici bruciati, si spandeva nell’aria.
Ricorda, ogni 500 anni… un nido da cui risorgere, da cui levarsi nuovamente in volo verso i limpidi cieli del mondo…
Kal entrò avvinto, l’inquietudine che lo aveva pervaso fin dalla sera precedente, lentamente, lasciava spazio a una sorta di euforia, un’ebrezza leggera.
In cerchio, nelle loro divise grigie e logore, un gruppo di bambini sedeva raccolto intorno a un grande falò, lo sguardo fisso sulle lingue di fuoco.
“Sabah al-khir Kal, ti aspettavo.” A pronunciare quelle parole, l’Uomo della Fenice.
L’odore si era fatto più intenso, saliva penetrante nelle narici di Kal, fino ad arrivare al cervello, la testa prese a girare. Cadde svenuto.

Cosa aveva lasciato papà? Un’istantanea nell’album di famiglia e solo un altro mattone. Abbattere il muro, abbattere il muro. Ci sarebbero arrivati ad abbattere il muro, mancavano solo 48 ore per riappropriasi della propria coscienza, per ridare al mondo ciò che l’uomo aveva rubato e distrutto. Il sole doveva morire e rinascere, così come aveva fatto l’uccello di fuoco.

Lucia Rambaldi, seduta al tavolo della modesta cucina, sotto la fioca luce che pendeva dal soffitto, fissava smarrita la tazza di caffelatte fumante davante a lei. Aveva bisogno di qualcosa che la rifocillasse, che la mantenesse vigile, ma non riusciva a mandar giù neanche un sorso. Gli occhi gonfi dalle troppe lacrime versate, la stanchezza di una notte da incubo, passata all’obitorio per il riconoscimento del cadavere e il disbrigo delle pratiche burocratiche. Che parole avrebbe trovato per dire a due figli che il padre era tragicamente morto sotto le rotaie del treno metropolitano? Forse, avrebbe tergiversato, almeno per il momento. Dalle deposizioni dei primi testimoni si parlava di un possibile suicidio. Suicidio? Come suicidio? Con la testa ovattata dal pianto e dal dolore non riusciva a trovare spiegazione alcuna. Forse, un incidente, ma come? O forse qualcuno lo aveva spinto? Ma chi? Un malato di mente in un attimo di pura follia…
Ultima modifica: 06/01/2014 19:44 da Monica.
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Scriviamo una cosuccia insieme? 21/11/2013 18:01 #44

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Ciao a tutti! Riapriamo la ricerca del quinto partecipante al racconto scritto a più mani, ce ne manca ancora 1.
Chiunque voglia farne parte basta che ci contatti in questo forum.
Nei post precedenti potete vedere le prime due parti, quelle già scritte, e farvi così un'idea di quanto già strolicato :)
Si richiede la scrittura di circa tre cartelle, seguendo la trama già intessuta.
Ultima modifica: 29/11/2013 20:08 da Monica.
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Scriviamo una cosuccia insieme? 21/10/2013 10:57 #42

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Raggiunto numero MAX :)
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