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La scala di pietra di Viviana De Cecco

La bambina si fermò ai piedi di quella scala percorsa decine e decine di volte. Osservò con malinconica nostalgia i gradini di pietra che, ripidi e stretti, avrebbero potuto condurla nella stanza dove sua madre, chiusa nel muto dolore dell’abbandono, trascorreva i giorni e le notti di quel rigido inverno in cui suo padre era svanito nel nulla.

Così, nella grande casa di campagna dove avevano sempre vissuto, circondata da file disordinate di ulivi, la piccola non poteva far altro che immaginare ciò che stesse facendo lassù, lontana e irraggiungibile, prigioniera di un silenzio che escludeva ogni consolazione.

«Non sarà più come prima», sentiva ripetere da zie, nonni e parenti. Ma lei scuoteva la testa di ricci castani e sedeva ogni sera ai piedi di quella barriera che sua madre aveva frapposto fra sé e il mondo.

Paziente e fiduciosa, stringeva al petto la sua bambola di pezza e attendeva che un’eco di passi leggeri tornasse a colmare di lieta speranza il vuoto delle loro vite. Osservava con aria nostalgica la zia Marta che saliva pian piano le scale, tenendo ben stretto tra le mani il vassoio su cui aveva appoggiato un piatto di minestra bollente. Quella sarebbe stata la cena che avrebbe portato a sua madre. La zia veniva a trovarle ogni giorno e insieme alla nonna di Alice mandavano avanti la casa.

Anche loro erano donne sole, quasi che una maledizione avesse fatto svanire nel nulla gli uomini della famiglia. Il marito della nonna era morto durante la guerra, quello della zia l’aveva lasciata per un’altra donna. Così, quando il padre di Alice se n’era andato, si erano guardate dritte negli occhi. Un lungo e complice silenzio.

Entrambe sapevano cos’era quel dolore che aveva avvolto la loro giovane Sabrina. E sapevano che la dolce e paziente Sabrina, la ragazza dagli occhi verdi e dai capelli corvini, avrebbe dovuto forgiare il suo carattere per diventare una donna ben diversa.

Alice, dal fondo delle scale dove se ne stava rintanata, avrebbe voluto seguirla, ma sapeva che la mamma non aveva ancora tempo per lei. Il dolore la distraeva. Il dolore, quel maligno sentimento che si era insinuato nel suo cuore, la allontanava da tutto ciò che era stato. Sua madre era sospesa in un mondo in bilico, nascosta dietro il battente di quella porta lontana.

«Dobbiamo chiamare un medico» disse una sera la zia Marta. La nonna, che sferruzzava nella poltrona accanto al camino acceso, si svegliò dal lieve torpore in cui era caduta. Afferrò saldamente i ferri che le erano scivolati in grembo e scosse energicamente la testa.

«I dottori non servono a niente quando il male è entrato dentro di te. Sei tu, che devi trovare la forza dentro te stessa. Anche da sola. Lo so bene io, cosa credi?»

Una sera, quando fuori la neve cadeva leggera ad ammantare il giardino già spoglio, Alice decise che era giunto il momento di avventurarsi al piano di sopra. Voleva vedere la mamma. Voleva respirarne il profumo. Voleva accarezzare la pelle sottile delle sue guance.

L’oscurità s’insinuava in ogni angolo della casa e la notte calava inesorabile a nascondere le forme del mondo.

Alice salì i gradini in tutta fretta, come un gatto che fugge dalla vista dei padroni di casa. Si fermò sulla soglia sbarrata della camera da letto e accostò l’orecchio al battente.

Sentì un rumore di passi nervosi, una sedia che si scostava e strisciava da una parte e dall’altra del pavimento, una finestra che si apriva e si richiudeva con un tonfo secco. Poi, fruscio di lenzuola, scricchiolio di assi di legno e parole mormorate come se sua madre parlasse da sola.

Era quasi un fantasma, sua madre. Alice ne percepiva la presenza attraverso tutti quei suoni ovattati, ma sembrava che la sua figura non possedesse più le proprietà della carne e fosse diventata uno spirito inavvicinabile.

Spostò il viso e cercò d’intravederla dalla serratura, ma il brandello di stanza che le veniva offerto da quella piccola visuale, non era sufficiente per mostrarle il punto dove si era rifugiata. La immaginò seduta vicino alla finestra, a fissare i candidi fiocchi di neve che volteggiavano nell’aria.

«Mamma…» La chiamò piano, in un debole sussurro che stentò a sentire persino lei stessa. Là dentro, nella stanza, calò un silenzio spettrale.

«Alice, che ci fai lì? Vieni subito giù!» gridò la nonna, con aria severa.

Alice si mosse rapidamente. I tacchetti delle sue scarpe che colpivano la pietra grezza della vecchia scala, risuonarono nella quiete della casa come i rintocchi d’un vespro ormai finito.

«Ti ho detto mille volte che non devi disturbare tua madre…» La rimproverò con sguardo inquieto. La sua voce era dura. Alice annuì, sconsolata.

All’improvviso, vide la nonna sollevare lo sguardo verso i gradini più alti della scala. Alice, che era rimasta di spalle, si voltò. Laggiù, un’ombra sembrava essere risorta da un buio impenetrabile.

Alice aspettò con il fiato sospeso. E l’ombra iniziò finalmente a scendere la scala di pietra, tendendo una mano nel vuoto per invitarla a raggiungerla. La bambina osservò sua madre e sorrise.

Lasciò la nonna e risalì i gradini per fermarsi a metà scala. E l’una di fronte all’altra, nel bel mezzo di quello scalone di pietra, si abbracciarono come mai avevano fatto in passato.

Si guardarono dritte negli occhi e sorrisero. Questa volta di felicità.

 

Cenni biografici

Viviana De Cecco è nata a Cagliari il 12 agosto 1984. Freelance e traduttrice aggiunge al suo lavoro la passione per la scrittura.

 

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